SOLTANTO MIO
di Gabriele Dolzadelli
«Quanto mi ami?» gli chiese lei, sdraiata al suo fianco.
«Non saprei. Vuoi un’unita di misura?» rispose lui.
«Sei proprio stupido. Basterebbe poco per farmi contenta. Non ci vuole niente a dire le parole giuste.»
«Ok, tanto, va bene? Ti amo tanto, anzi, no, tantissimo. Ora sei contenta?»
«E quanto sono bella?»
«Tantissimo. Amore, sei la più bella ragazza che abbia mai conosciuto.»
«E che conoscerai mai. Non ne troverai mai una più bella di me. Nessuna lo è. Nemmeno Francesca.»
«Francesca?»
Carlo
rimase spaesato di fronte a quel nome. Francesca era la sua ragazza e
per un attimo si chiese perché, in quel momento, fosse sdraiato con
Teresa a dirsi frasi romantiche.
Teresa sembrò percepirlo. Indurì i
tratti che fino a quel momento avevano avuto la fragranza del caramello e
avvicinò un’unghia affilata alla sua gola.
«Nemmeno Francesca, vero?»
Carlo
si svegliò di soprassalto. Si tamponò la fronte con il dorso della mano
e pizzicò la maglietta, appiccicata al petto come un polpo su uno
scoglio bagnato. I battiti correvano come un treno a vapore, le narici
ne erano i camini. L’aria bollente gli si aggrappava alla pelle e Carlo
sentì il bisogno di alzarsi e aprire la finestra.
«Ti senti bene?» gli chiese Francesca, dall’altra parte del letto.
Carlo
annuì ma non riuscì a risponderle a parole. La gola era secca e la
lingua sembrava un mollusco morto. Si affacciò e respirò l’aria del
bosco, ristoratrice e fresca. Si prese qualche minuto e Francesca glieli
concesse. Solo quando si voltò per andare in cucina a bere qualcosa,
lei si alzò.
«Cos’è successo? Hai avuto un incubo?»
«Non è niente» rispose lui, fermandosi sulla soglia.
«Come sarebbe? Sei stravolto. Hai sognato ancora lei?»
«Davvero, non ti devi preoccupare. Probabilmente ho solo mangiato troppo e mi è rimasto sullo stomaco.»
Francesca
lo raggiunse, facendo scricchiolare le assi di legno del pavimento.
Ogni volta che ci si muoveva in quel piccolo chalet sembrava che la
struttura ne risentisse, pronta a venir giù come la casa dei tre
porcellini.
Carlo la guardò negli occhi e capì che avrebbe insistito fino a fargli dire la verità.
«Sì, l’ho sognata. Sapeva di noi e minacciava di infilzarmi la gola. Ma era solo un sogno. Bevo qualcosa e mi riaddormento.»
La ragazza gli accarezzò la spalla.
«Certe
persone sanno lasciare profonde cicatrici. Non sottovalutare i danni
che ti ha fatto. Anche il mio primo ragazzo era un pazzo furioso. Non
faceva altro che mortificarmi e umiliarmi. Quando l’ho lasciato sono
dovuta ricorrere a uno psicologo e mi ha fatto solo bene. Perché non fai
lo stesso? Almeno butti fuori tutto. È da troppo che ti succede!»
Carlo
non aveva voglia di una lunga discussione sull’argomento. Voleva solo
bere, sdraiarsi e dimenticare. Annuì per farla contenta e uscì nel
corridoio, per poi scendere al piano di sotto.
Fu sorpreso di
trovare la luce della cucina accesa. Jeremy, il ragazzo che condivideva
con loro la casa, stava mangiando uno yogurt al mirtillo da mezzo chilo.
Frequentava l’accademia di architettura di Lugano, come Francesca.
Quando Carlo aveva trovato l’offerta di una camera in uno chalet appena
fuori città, alle falde del Monte Caprino, aveva subito fiutato l’affare
e vi si era trasferito anche a costo di dividerla con altre tre
persone. All’epoca c’era anche il fidanzato di Francesca, un tale Mirko,
che dopo qualche mese era sparito dalla circolazione piantando a metà
gli studi. Fu da allora che Carlo aveva iniziato a frequentarla.
«Spuntino di mezzanotte?»
Jeremy
iniziò a rumoreggiare con il cucchiaino, sbattendolo nel barattolo per
catturare più yogurt possibile. Era leggermente sovrappeso e sotto gli
occhi erano disegnate due occhiaie che amava definire ironicamente le
sue “borse di studio”. Probabilmente, quella era una delle tante notti
insonne passate sui libri.
«Smuovere la materia grigia mette appetito. Se vuoi ce n’è un altro in frigo.»
«Formato famiglia? No, grazie. Anzi, mi servirebbe un digestivo. Credo di aver esagerato con le lasagne, ieri sera.»
«Siete stati al “Fantasia”? Ci credo! Non ne troverai mai una più buona!»
Non ne troverai mai una più bella di me.
La
voce di Teresa echeggiò nella sua mente. Carlo si irrigidì al ricordo
del suo sguardo severo e dell’unghia che spingeva sulla giugulare.
« Ho detto qualcosa che non va?» chiese Jeremy, per poi leccare il coperchio del barattolo.
Carlo ritornò alla realtà.
«No,
figurati. È che… Hai mai avuto una fidanzata… come dire… fuori di
testa? Una di quelle ex di cui c’è da avere paura sul serio?»
Jeremy ciucciò il cucchiaio e poi si alzò per metterlo nel lavandino.
«Guarda,
le mie ragazze le puoi contare sulle dita di una mano di un falegname
distratto. Quindi, no. Ne ho avute due ed erano sane di mente. Una ha
anche messo su famiglia, da quanto ne so. Perché me lo chiedi? Tu ne hai
avute?»
Carlo non sapeva quanto fosse bene confidarsi. Jeremy era
tutto tranne che la figura da psicologo che Francesca gli aveva
consigliato.
«Una, sì. Ci siamo lasciati un anno e mezzo fa. Poco
prima che venissi qui allo chalet. Una di quelle persone che desiderano
soltanto essere venerate da qualcuno. Sai, una di quelle che vogliono
essere servite e riverite, che parlano soltanto di sé e che non
accettano mai un no come risposta.»
Jeremy si mise a ridacchiare e buttò il barattolo nell’immondizia.
«Non deve averla presa molto bene, allora, quando l’hai lasciata.»
Carlo
sospirò. Ricordò le telefonate e i messaggi che aveva continuato a
mandargli, fino al punto di costringerlo a cambiare scheda. A quel punto
aveva anche iniziato a importunare i suoi genitori, in Italia, tanto
che suo padre aveva dovuto chiamare i Carabinieri per potersela togliere
di torno. Da qualche mese le acque, però, sembravano essersi calmate.
«No» rispose. «Per niente.»
Non
riprese sonno, e il giorno dopo Carlo, si ritrovò a sonnecchiare sul
banco dell’aula universitaria, a scienze economiche. Era tardo
pomeriggio quando prese il pullman postale per tornare a casa e il cielo
era così scuro che non faceva altro che incentivarlo a raggiungere il
letto per rintanarsi sotto le coperte. Quando scese alla fermata poté
già sentire qualche piccolo ago d’acqua che gli punzecchiava le parti
scoperte, come le mani e il collo. Doveva affrettarsi, se voleva
arrivare a destinazione asciutto. Chiuse la borsa a tracolla con dentro i
libri e gli appunti, assicurandosi che la zip mantenesse tutto al
sicuro. Quando rialzò lo sguardo, ecco che la vide. Era lì, in piedi,
sotto alla tettoia della fermata. Sorrideva, come se il loro incontro
dovesse far esplodere da un momento all’altro la gioia di una
rimpatriata. Lo osservava come si osserva un bimbo a cui è stato appena
consegnato un regalo e di cui si aspetta soltanto la reazione, una volta
scartato.
«Teresa… Che ci fai qui?» furono le uniche parole che
Carlo riuscì a pronunciare. Il ragazzo si guardò attorno. Erano soli e
la cosa lo inquietò.
Teresa fece mezzo passo in avanti e l’espressione mutò in un’aspettativa delusa.
«Sono
venuta a trovarti. Non sei contento? Ho saputo che ti sei iscritto
all’università e che ora abiti qui. Non è stato facile, ma ti ho
ritrovato. Non sai quante cose ho da raccontarti!»
Carlo arretrò e
sentì le gambe vacillare. Mise una mano in tasca e toccò il telefonino.
Era l’unica speranza di poter uscire da quella situazione. Si augurò di
non dover arrivare a tanto.
«Non dovresti essere qui. Chi… Come mi hai trovato? Noi due ci siamo lasciati, devi fartene una ragione!»
Teresa fece un altro passo e Carlo si allontanò della stessa misura, un’altra volta.
«So
che sei molto confuso, lo capisco. A volte la vita gioca questi
scherzi, ma tu hai bisogno di me, Carlo. Io ti conosco molto bene e so
che senza di me tu sei perso. Cerchi di rimpiazzarmi con questa
Francesca ma, lo avrai capito anche tu, non puoi farlo. Ma non ti
preoccupare, nulla è perduto. Come vedi, sono di nuovo qui, per
ricominciare.»
«Come sai di Francesca?» chiese Carlo d’istinto. Poi,
però, decise subito di lasciar perdere. Quella era una pazza e chissà
quali assurdi metodi aveva escogitato per indagare sulla sua vita
privata. «Ascolta, non m’importa di quello che pensi o di cosa diavolo
ti sia messa in testa. Azzardati solo ad avvicinarti a casa mia e chiamo
la polizia. Anzi, se non te ne vai subito lo faccio ora, hai capito?»
Per
rendere ancor più chiaro il concetto, Carlo estrasse il cellulare e
digitò già un paio di numeri, tanto per spaventarla, come quando si
toglie la sicura a una pistola.
Teresa protese una mano per fermarlo.
«No,
non serve. Ma prima di andare, permettimi di metterti in guardia.
Quella ragazza non è quello che credi. È una psicopatica!»
«Tu sei una psicopatica! Ora vattene!»
«Ti sei mai chiesto che fine abbia fatto il suo vecchio fidanzato, quello sparito nel nulla?»
Carlo
iniziò a sentire la rabbia fargli vibrare le viscere. Era arrivata
anche al punto di scavare nel passato della sua fidanzata? Era troppo!
«Smettila!»
«Cercalo
nel bosco, giù, dove si affaccia la finestra della tua camera.
Basteranno trecento metri e arriverai a un grosso masso. Prova a scavare
lì. Capirai molte cose.»
Prima che Carlo potesse minacciarla ancora, Teresa si girò e se ne andò, scendendo a piedi verso la città.
«Secondo me è una follia.»
Jeremy faticava a stargli dietro, mentre scendevano il pendio, stando attenti a non scivolare sulle foglie bagnate.
Si
erano muniti di impermeabile e avevano affrontato il bosco nonostante
la pioggia. Almeno, gli alberi li riparavano un po’ dalle pesanti gocce
che sfuggivano al cielo.
«Può darsi. Ma non è una tipa da mandarmi
quaggiù per niente» disse Carlo, usando il manico della pala come un
bastone da trekking.
«Quindi credi che dica il vero su Francesca?»
«No,
per niente. Però deve aver combinato qualcosa e non mi va che gironzoli
attorno a casa nostra in questo modo. Voglio sapere cos’ha fatto.»
«Per me devi semplicemente chiamare la polizia.»
«Se si rifà viva, lo farò di sicuro. Tu cosa sai dirmi, comunque, su Mirko? Non capisco perché tirarlo in ballo.»
«Mirko
era un tipo strano» rispose Jeremy, per poi appoggiarsi a un albero e
prendere un respiro profondo. «Credo si facesse di cocaina prima di ogni
esame. Una volta c’era un gatto che rompeva le scatole di notte ed è
sceso a sistemarlo. Capisci che intendo? Era uno che se gli saltava il
grillo…»
«Sì, vabbè, a parte questo. Perché si sono mollati?»
«È la tua fidanzata. Non glielo hai mai chiesto?»
«Regola numero uno: mai chiedere degli ex alla tua ragazza. Non l’hai ancora imparato?»
«Che
regola stupida» borbottò Jeremy. «Comunque, credo che lei fosse un po’
troppo gelosa e possessiva. Aveva le sue ragioni, eh. Con te vedo che è
diverso.»
Carlo si fermò di fronte a un grosso masso accerchiato
dalle piante. Era alto due metri e largo almeno cinque. Sembrava caduto
dall’alto, scagliato da qualche divinità annoiata.
«Siamo arrivati» disse, cercando il punto a cui si riferiva Teresa.
«Un
altare?» chiese Jeremy affiancandolo e indicando un gruppo di pietre
sormontate fino a formare una piccola piramide di mezzo metro.
Carlo vi si avvicinò e, senza attendere oltre, piantò la pala nel suolo.
Jeremy
fece la parte del vecchio in cantiere, osservando i lavori e tenendogli
semplicemente compagnia. «Magari ci hanno seppellito un cane» ipotizzò,
cercando di smorzare la tensione dovuta alla paura che cominciava a
risalirgli la spina dorsale.
Carlo continuò a spostare terra, finché
non vide spuntare qualcosa. Si chinò, sedendosi sui talloni, e spostò il
terriccio con le mani. Quando vide di che si trattava, lanciò un urlo
che fece scappare un paio di uccelli riparati tra i rami. Un braccio. Un
braccio umano.
«Mioddio!»
«Ricoprilo. Ricoprilo subito, sbrigati!»
Carlo tentò goffamente di ributtare la terra sul corpo.
«Lo ha ammazzato!» disse.
«Magari
non è lui. Può essere la tomba di chiunque altro. Non lo sapevamo.
Abbiamo trafugato una tomba! Rimettila com’era! Rimettila com’era!»
«Non si seppellisce la gente nei boschi! Questo l’hanno ammazzato!»
«Beh, noi non abbiamo trovato niente. Non vorrai passare dei guai!»
«E se è Mirko?» chiese Carlo.
«Quello
si faceva di cocaina. Chissà che gente frequentava. Dammi retta,
rimaniamone fuori. Io voglio finire gli studi, non passare l’anno in
processo, come quei due che avevano trovato la compagna americana morta!
Non ci penso nemmeno. Ricoprilo subito.»
Carlo annuì e cercò di spianare la terra, come se nessuno vi avesse mai messo mano.
Quando
tornò a casa, Francesca non era ancora tornata. Jeremy si rifugiò in
camera e non volle più parlare dell’argomento. Carlo si fece una doccia e
si mise a letto, a fissare il soffitto.
Come faceva Teresa a saperlo? continuava a domandarsi.
L’ha
ucciso lei? Non ne avrebbe avuto motivo. Quando Mirko era sparito lui e
Francesca erano come due estranei. Uccidere il suo ragazzo sarebbe
stato come darle modo di finire tra le sue braccia. Non aveva senso. A
meno che non fosse vero. Francesca era gelosa e possessiva. L’aveva
detto Jeremy. Poteva essere arrivata a tanto? A ucciderlo? Quanto sapeva
di lei? Erano assieme da solo un anno. Anche in quel caso, rimaneva la
stessa domanda: Come faceva Teresa a saperlo?
Non faceva altro che
tormentarsi. L’ansia stava prendendo il sopravvento, amplificando nella
testa il suono della pioggia contro il vetro della finestra.
Poi ci
fu un altro rumore ad attrarre la sua attenzione. Un suono metallico,
proveniente dal piano di sotto. Ne seguì un tonfo e infine il silenzio.
Carlo
fu indeciso sul da farsi. Forse, Jeremy si era alzato, come suo solito,
a mangiare, inciampando in qualcosa. O forse era Francesca che era
tornata? Sperò in queste due possibilità, rigettando il pensiero che
Teresa si fosse introdotta in casa.
Il legno delle scale scricchiolò.
Qualcuno stava salendo. Carlo si guardò attorno, cercando un’eventuale
arma da usare in sua difesa, ma non trovò nulla. Si alzò, decidendo di
chiudere a chiave la porta della camera, per precauzione. Appena gli fu
vicino, questa si schiuse, rivelando il volto bagnato di Francesca.
«Ehi, ciao. Piove a dirotto là fuori» disse sorridendo mentre entrava.
Carlo arretrò e le fece spazio. Era davvero bagnata come un sasso di fiume.
«Hai fatto tardi» constatò Carlo.
«Sì, oggi è stata dura. Ma ora è tempo di relax. Dove sei stato con Jeremy?»
Quella domanda lo spiazzò e lo fece irrigidire. Francesca non parve accorgersi, intenta a sfilarsi la felpa e i pantaloni.
«Cosa ti fa pensare che siamo usciti?»
Francesca aprì un cassettone, alla ricerca di una tuta asciutta.
«Ci sono le vostre scarpe tutte infangate, vicino alla porta. Dove siete stati con questo tempo?»
«Oh,
niente, una signora non ha visto la cunetta a bordo strada e si è
impantanata. Io e Jeremy l’abbiamo aiutata a spingere l’auto per
rimetterla in carreggiata e ci siamo sporcati» mentì.
Francesca si
rivestì e lo guardò negli occhi. Uno sguardo intenso, non tanto di chi
sospetti qualcosa, quanto di chi stia dando l’ultima possibilità per una
confessione. Carlo si sentì a disagio. Perché le stava mentendo? Forse,
in fondo, sospettava davvero di lei?
«Vado a farmi una doccia e arrivo. Spero che Teresa non si sia più rifatta viva.»
«No, figurati. Chi la rivede più.»
Francesca annuì e si avviò nel bagno.
Carlo
fece per rimettersi a letto, ma al piano inferiore ci fu un altro
tonfo. Sentì un formicolio espandersi in tutto il corpo. Schiude la
porta e sbirciò fuori. Si sentiva solo il suono dell’acqua della doccia.
Iniziò a credere che fosse di nuovo Francesca, ma quando si ripeté, fu
chiaro che proveniva dalla cucina. «Jeremy?» chiese ad alta voce.
Nessuna risposta.
La porta della camera del ragazzo era aperta. Carlo
gli passò davanti e guardò dentro. Vuota. Il letto era sfatto e i libri
di studio ancora aperti sulla scrivania, sotto la luce di una lampada.
Scese per precauzione. Non poteva dormire tranquillo fino a che non avrebbe avuto conferma fosse lui.
Il
piano inferiore era nella completa oscurità. Carlo accese la luce. La
cucina era deserta. In compenso, notò che vicino alle scarpe infangate,
accanto all’ingresso, era sparita la pala. Ricordò di averla appoggiata
lì, una volta tornati, eppure non c’era più.
«Jeremy?» lo chiamò di nuovo.
Cosa
gli era saltato in mente di fare? Mise mano alla maniglia della porta
d’ingresso e vide che era chiusa a chiave. Un altro rumore lo fece
voltare. Proveniva da fuori, ma dalla parte opposta a dove si trovava.
Attraversò il salotto e raggiunse la porta che dava sul retro. Era
aperta a metà e l’uscio si stava bagnando per la pioggia che cadeva
leggermente di traverso.
Carlo uscì e quando si guardò attorno ritrovò la pala.
Era
per terra, con il filo sporco di sangue. Accanto, il corpo di Jeremy
giaceva scomposto, prono, con una macchia rossa a sporcargli la nuca e
l’erba vicino.
«Hai visto? L’ha fatto ancora!»
Carlo si voltò di
scatto e si ritrovò Teresa a un solo metro di distanza. Era fin troppo
calma per la situazione surreale in cui si trovavano.
«È da quando
sei qui che ti osservo. Sono sempre stata qua fuori, amore mio. Perché
il mio cuore è solo per te. Dove la puoi trovare una donna che ti ami
così?»
«Tu sei pazza! Stammi lontano!»
Carlo si piegò e afferrò la pala, brandendola e agitandola in aria per tenerla a distanza.
«È
per questo che l’ho vista! L’ho vista trascinare un grosso sacco di
notte, giù per il bosco. E deve aver saputo che l’avete scoperta. Guarda
cosa ha fatto al tuo amico! Ora lo farà anche a te! È lei la pazza,
Carlo! Non sono io!»
Carlo indirizzò la punta della pala verso il suo
petto. Fu in quel momento che, con la coda dell’occhio, vide Francesca
sulla soglia.
«Ancora tu?» disse la donna. «Cos’hai fatto a Jeremy? Oddio, chiama la polizia, Carlo! Forza!»
«Non
farlo. Carlo, guardami. Sono io la donna che ami, tu lo sai. Ami ancora
me, te lo leggo negli occhi. Lei non è niente confronto a me. Torniamo
insieme!»
«Zitta! Hai ucciso Mirko e ora Jeremy» le urlò contro Francesca. «Sei una pazza da rinchiudere. Ora la chiamo io la polizia.»
«No!»
L’urlo di Teresa fu viscerale, disumano. Si avventò su Francesca con le
mani protese, pronta ad artigliarle la faccia e a sradicarle di dosso
ogni tratto del suo viso.
Carlo agì d’istinto e la colpì con la pala alla testa, facendola cadere come un sacco vuoto.
Teresa giaceva inerme e Francesca lo stava fissando bianca e sconvolta. Aveva ancora il cellulare all’orecchio.
Carlo udì rispondere una voce dall’altro capo e Francesca rinsavì.
«Sì, ci sono dei feriti. Abbiamo bisogno di un’ambulanza e… della polizia» disse la ragazza per poi dettare l’indirizzo.
Carlo
si chinò su Jeremy e lo scosse. Non riusciva a capire se fosse vivo.
Non sembrava respirare. Voleva aiutarlo ma non sapeva come.
«Questa
pazza ha finito di tormentarci. Marcirà in prigione, vedrai. Non ha
capito con chi aveva a che fare. Tu sei solo mio. Soltanto mio!»
Quelle parole furono una nota stonata in tutto il contesto. Carlo si accigliò.
«Come lo sapevi?» chiese.
«Come sapevo cosa?»
«Di Mirko. Io non ti avevo detto che avevamo trovato il corpo. Come sapevi che l’aveva ucciso?»
Non
udì risposta. Carlo si voltò e vide Francesca con in mano la pala. Non
ebbe il tempo di parare il rovescio, che fu colpito con il piatto alla
mascella.
Cadde al suolo, con la guancia sul sangue di Jeremy e il
terreno fangoso. I sensi erano tutti alterati, faticava perfino a
orientarsi. La botta era stata tremenda e la pioggia contribuiva a
confonderlo.
Vide i piedi nudi di Francesca, davanti al suo viso.
«Peccato»
disse lei. «Poteva risolversi ogni cosa per il meglio. Invece… Hai
rovinato tutto. Peggio per te, Carlo. Peggio per te.»
Poi fu colpito per l’ultima volta.